All’interno del percorso formativo di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, c’è uno spazio dedicato all’autobiografia filosofica, uno spazio in progress. Da tale spazio voglio riportare qui il testo di una collega, anche scrittrice, per la particolare bellezza dell’esposizione.
PATRIZIA BIAGGINI Verso la filosofia
Già da molto piccola una grottesca, dolorosa consapevolezza di me interveniva inopportunamente a connotare qualche mia giornata.Non che non fossi allegra: lo ero anche troppo; molte foto, ora per la verità un po’ sbiadite, mi restituiscono ancora in pose sgangherate, rovesciata all’indietro, le braccia semiaperte e la bocca spalancata quasi a dimostrar più dedizione, più fede nella causa del riso, che non un vero e proprio, irriconoscente abbandono.Risate grasse, di piena e gioiosa adesione. Di lì si aveva quasi l’impressione di poter uscire fuori e sparpagliarsi in ogni dove. Agire, a sentire Baudrillard e/o Bataille, come se non ci fosse più differenza fra sé e l’altro; come se da ordinari esistenti ci si potesse trasformare, nientemeno, che in nuda e cruda esistenza.Generose aperture, pratiche comunitarie del ridere, che tuttavia sapevano anche declinarsi in sentimenti più ambivalenti, perturbanti. Improvvisamente ridere poteva diventare un atto della pietà: l’imbarazzo di Pirandello, che si strugge di riso e commozione di fronte alla vecchia imbellettata.Nella mia adolescenza, l’elevazione a potenza di questo sentimento perturbante si trasformò subito nel raffinato supplizio della vergogna.La coscienza, pomposa, sinistra e supplementare, era spesso in agguato; pronta a registrare ogni caduta, e le stonature, le inevitabili incongruenze del nostro agire quotidiano. Bastava accendere i riflettori sopra qualche minimo spunto – la pateticità di un eccesso di desiderio, l’improvvisa solitudine di un saluto non corrisposto, o ancora l’eco maligna di una frase fuori luogo – che subito ne scaturivano piccoli drammi, chiusure, penosi vissuti d’inappartenenza. Più tardi ho ripensato a queste quote di vergogna come a sanzioni oculatamente erogate da una coscienza rappresa nell’inquietante immagine del tribunale… Ah!, la sapienza del raffinato congegno! E’ chiaro, si voleva il nostro bene, il riscatto, la crescita sociale… A forza di ridere e vergognarsi di sé, l’uomo avrebbe potuto migliorarsi, raggiungere l’altro in un abbraccio di trepidante compassione. Lo dico così, in un accento un po’ sarcastico, eppure, in fondo, ci credo, ci ho creduto abbastanza. Non nella predestinazione del mezzo, ma nella ricaduta involontaria del suo lavorare, in termini di bene, questo sì.Non solo la vergogna apre la via alla conoscenza, ma chiama anche in causa la responsabilità. Verso di sé, verso gli altri.Amo Cioran per le tinte fosche con le quali descrive la coscienza: pugnale nella carne, non-partecipazione, iato fra sé e sé capace di condannarci ad un perenne stato d’insincerità (rispetto agli altri, rispetto alle cose). “la coscienza interviene nei nostri atti solo per turbarne l’esecuzione, la coscienza è una perpetua messa in discussione della vita, è forse la rovina della vita”. E’ un definire perentorio, che tuttavia non può essere accolto se non contestualmente all’umorismo che sempre richiama (come nei titoli dei suoi saggi: Al culmine della disperazione, Manuale di decomposizione, L’inconveniente di essere nati). Come a dire che in fondo anche lo stesso Cioran doveva saperlo benissimo e anzi, meglio di chiunque altro: “quel punto di rottura fra lo spirito e il mondo” è anche anello di congiunzione, apertura, comprensione, redenzione.Non so se a 13 anni, quando per la prima volta lessi Svevo, quella singola frase, sulla quale ho poi spesso riflettuto, mi avesse già colpito così tanto. Una frase alla Cioran, che per l’appunto interveniva a descrivere la coscienza come iato, come presa di distanza rispetto a ciò che si è e ciò che si fa.Lui, Zeno, si è appena sposato e gira in gondola a Venezia, in compagnia della moglie: “Augusta come sempre guardava le cose e le registrava: un giardino verde e fresco … un campanile che si rifletteva nell’acqua torbida… Io invece, nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso”.Povero Zeno!… Sepolto dal peso enorme dell’immane, non richiesto, lavorio che continuamente svolge la sua così ipertrofica coscienza. Un ingombro fatale che disarticola ogni suo agire, destituendolo di stile, naturalezza, efficacia.A quell’età io andavo alla biblioteca del mio paese come in un pellegrinaggio.Lì cercavo filosofia in forma di narrazioni. Storie che avrebbero potuto dare più contorno e senso a quella che in fondo sentivo come una mia diversità.Nel gioco dei rispecchiamenti Zeno mi ha molto consolato.In fondo la sua coscienza era della stessa stoffa della mia. In più, elemento non trascurabile, si rivelava anche efficace, di buona grana, capace di stare al gioco. Tanto straripante e ingovernabile all’inizio quanto, infine, sempre più implicata, connivente: quasi in segreto accordo con quel povero Io, a restituire, a garantire presa, presenza, e perfino una forma di bizzarra, lieve e giocosa sapienza…Certo, all’epoca l’happy-ending sveviano dev’essere stato per me poco più che un presagio; allora ero soprattutto in balia di quel pathos melodrammatico di stampo ormonal-cronologico, masochismo che per l’appunto rendeva allettante anche la più semplice condivisione di tanto nevrotici e conflittuali dissidi.Riconoscersi in compagnia del mondo, a 13 anni, è di vitale importanza.Così fu per me il senso di leggere. Compagnia, riconoscimento, costruzione d’identità. La letteratura apriva i miei spazi d’interrogazione. La filosofia era già tutta lì, eppure andava indagata risalendo alle fonti più esplicite.Le letture propriamente filosofiche iniziarono più tardi con Schopenhauer, Nietzsche e, tanto per rimanere negli orrori dello sguardo reificante, con l’immancabile Sartre (che oltretutto, da noi, negli anni ‘70, era famoso per il va-lore aggiunto della sua Simone, meritevole di aver preso residenza estiva nien-temeno che a Trebbiano, un paesino a qualche chilometro da Lerici).Pensiero riflettente. Distanza. Umorismo illuminato. Parabola della coscienza che invecchia, e che da mostro tiranneggiante qual era, ora si tende e s’inarca in sorriso più quieto, che apre e si predispone alla venuta dell’altro, sempre più debole e infiacchito nella sua minaccia d’ostilità. Un’età matura, dove lo sguardo su di sé non smentisce né ripudia i rituali più urticanti del suo primo esordio: ma piuttosto si guadagna quel passo ulteriore verso l’ampiezza dell’accettazione, accogliendo con sospiro capace, sornione e tollerante tutto il carico della grottesca ineluttabilità del vivere quotidiano.Ridere è atto profondamente filosofico, come ebbe a spiegare Jean Paul nel 700. E l’umorismo somiglia all’uccello di Merops, racconta il filosofo citando l’antica leggenda di quell’uccello che volava verso il cielo stando girato dalla parte della coda. Una strana danza che però serviva a fissare meglio le povere contingenze del mondo terreno, commisurandole, contemporaneamente a quella salita verso l’alto, con le vastità, peraltro solo intuibili, di quell’altro mondo infinito.La metafora rende ancora bene la fatica sciamanica e misteriosa di quel forzare insieme campi altrimenti lontani e impertinenti. Oggi si parlerebbe, con Bateson per esempio, di accordi consumabili solo sul terreno della paradossalità. Doppi vincoli, sdoppiamenti, moltiplicazione di livelli cui allude anche Rovatti.E anzi, nell’introduzione al saggio di Bateson, è proprio Rovatti ad interpretare l’umorismo come tramite privilegiato per accedere a quell’arte così difficile e paradossale che è quella della comunicazione umana. Un’arte che “richiede un esercizio su di sé e un’apertura agli altri, insomma una preparazione che investe l’intera soggettività (…) Essa corrisponde” né più né meno, alla ‘vera’ pratica filosofica, (…) Tuttavia, non è altrettanto diffusa l’idea che per esercitarla occorra saper praticare l’umorismo; (…).Non è da molto che ho letto queste parole, e, devo ammetterlo… non potevo ricavarne maggiore consolazione! Come quarantenne (e più) mi sono infatti accorta, specie negli ultimi anni, di essere spesso alla compulsiva ricerca di qualche balsamica goccia di coerenza, non so, qualcosa capace di amalgamare l’insieme, qualcosa capace di legare col famoso filo rosso accadimenti passati che, altrimenti, dovrei rammemorare solo nel loro profilo più deludente, così malamente inanellati e casualmente assortiti… Invece no, guarda lì.Tutto d’improvviso si può ricomporre.Prima di quest’ultima lettura, pensando al rapporto fra la mia visione umoristica del mondo e la C.F., fantasticavo su certi possibili nascondimenti. Per esempio mi prefiguravo che se qualcuno mi avesse chiesto (magari in tono vagamente canzonatorio) se davvero facevo la Consulente Filosofica, io allora avrei potuto ribattere, citando Moretti ancor prima di Giacometti, che sì, lo facevo, ma con ironia. Ora posso perfino prescindere da quel salvagente di cemento (con tanto di inopportuno richiamo alle pratiche masturbatorie del film di Moretti) e risalire direttamente al nocciolo della questione. Altro che pose giustificatorie! Ci si può allargare e vedere la propria vita come un bell’insieme dominato da rigorosi rimandi e precise, coerenti catene di causa-effetto… Una vita che avanza per propositività interna, indefessamente a collegare il primo con l’ultimo polo della sua stessa parabola: dunque dalla dolorosa, tragicomica e sveviana consapevolezza di sé fino a quest’ultimo, ben riposto esercizio delle neo-pratiche filosofiche. Un tronfio esultare, che però, come sempre, filosoficamente o umoristicamente che sia, non mi convince affatto e anzi: finisce per dilatarsi ancora in un’ennesima, estenuante apertura di dubbio. Un po’ come succedeva al prota-gonista dei romanzi di John Fante, quel memorabile Bandini che sempre, sul più bello, inoculava un fiato raggelante a ritemperare la piena incandescenza di certe sue ottimistiche visioni.
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